Per anni, il “sold out” è stato il Santo Graal del live business. Un sigillo dorato da apporre con orgoglio su ogni comunicato stampa, una medaglia per artisti e promoter, un messaggio rassicurante per il pubblico (“Se va a ruba, deve valerne la pena”). Ma oggi, tra secondary ticketing, biglietti dinamici e fan che si sentono traditi, quella parola magica comincia a perdere il suo splendore. E forse, come ha sottolineato recentemente Ferdinando Salzano di Friends & Partners, è tempo di smettere di inseguirla ossessivamente.
Il problema? Il sold out non è più solo un indicatore di successo, è diventato un obiettivo di marketing a prescindere dalla realtà. A volte si bloccano porzioni di platea per creare l’impressione del “tutto esaurito”, si trattengono biglietti per rilasciarli strategicamente, si comunica il sold out quando in realtà… qualche poltrona vuota rimane sempre.
E così, nel disperato tentativo di proteggere lo status dell’artista, si dimentica l’obiettivo più importante: rendere i concerti accessibili, trasparenti e autentici. È proprio questa rincorsa al sold out a dare linfa al secondary ticketing, un mercato grigio che lucra sulle emozioni dei fan e mina la fiducia nel sistema ufficiale.
Ammettiamolo: un concerto non sold out non è un fallimento. È solo un evento ancora aperto, un invito. Magari proprio quel margine residuo permette all’ultimo fan indeciso di trovare posto. O dà a un genitore la possibilità di sorprendere un figlio all’ultimo momento. E no, non è “indecoroso”. È umano.
Forse è ora di riconoscere che la vera vittoria non si misura con il cartello rosso “SOLD OUT”, ma con l’energia del pubblico, con le emozioni condivise sotto palco e con la voglia, sempre più rara, di dare valore alla musica al di là dei numeri.